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Germania

Il Dopoguerra

Dopo la sconfitta della Germania e la liberazione da parte delle truppe alleate nella primavera del 1945 circa diecimila ex-lavoratori forzati si trovavano in Bassa Sassonia Meridionale. La popolazione tedesca non aspettava altro che il loro rientro in patria: queste “displaced persons”, indisponibili per il mercato del lavoro, erano considerate solo un fastidio e un peso per le casse comunali. Spesso si verificavano scontri tra gli appartenenti ai due gruppi.

I tedeschi non erano disposti a confrontarsi con l’immediato passato nazionalsocialista. L’atteggiamento generale era di rimozione e discolpa; la condanna del lavoro forzato come crimine di guerra e crimine contro l’umanità durante i “Processi di Norimberga” nel 1946 non fu mai veramente accettata dalla società. Così, il trattamento dei lavoratori coatti non rivestì praticamente alcun ruolo nei processi di denazificazione. Nelle cronache locali e nei racconti i lavoratori forzati erano semmai menzionati come saccheggiatori della proprietà tedesca: in questo modo, invece di essere considerati vittime di un crimine di guerra, venivano bollati come colpevoli.

L’assistenza e il rimpatrio delle “displaced persons” fu una grande sfida. Nella Germania occidentale le autorità di occupazione organizzarono dei campi appositi, alcuni dei quali continuarono ad esistere fino agli inizi degli anni Cinquanta, come i grandi lager della Kurhessenkaserne ad Hann. Münden e di Moringen.

Per molti ex lavoratori coatti il rientro in patria era difficile o addirittura impossibile. Soltanto nel territorio delle odierne province di Göttingen e Northeim ne morirono più di mille: non sopravvissero alla denutrizione, alle fatiche eccessive o alle malattie, morirono in campi di punizione o a seguito di torture o di incidenti sul lavoro, furono giustiziati, morirono avvelenati da alcool contraffatto subito dopo la liberazione, si suicidarono o morirono di morte naturale in un paese straniero, lontani dalle famiglie e dagli amici. Il trasporto delle salme nei paesi d’origine durò anni, a volte non avvenne mai.

Altri dovettero innanzitutto riprendersi fisicamente e psicologicamente. Nel caso di lavoratori forzati dall’Unione Sovietica ad attenderli in patria c’erano i servizi segreti e, spesso, l’accusa di “tradimento” per aver “lavorato per il nemico”. Anche coloro che dovevano far ritorno in Polonia avevano paure simili, data la situazione politica nel loro paese. Molti avevano perso ogni contatto con la propria famiglia. E molti volevano rimanere in Germania per i motivi più diversi.

Giustizia

Le ingiustizie commesse rielaborate sul piano giuridico. Ad oggi non siamo praticamente a conoscenza di nessuna sentenza di condanna da parte di un tribunale tedesco a causa di maltrattamenti di lavoratori forzati stranieri in Bassa Sassonia. Il processo contro Waldemar Wissemann, locatario demaniale di Himmigerode presso Sattenhausen fu istruito dalla giustizia tedesca soltanto su ordine del governo militare britannico. Nonostante ci fossero le prove che Wissemann aveva torturato brutalmente lavoratori polacchi e nonostante alcuni Polacchi lo accusassero di aver ucciso, nel 1945, Jan Ciździel, uno dei suoi lavoratori coatti, la giustizia si occupò del caso con estrema negligenza. Alla fine la V corte del tribunale federale interruppe il processo, in quanto – questa fu la motivazione – le vittime non avrebbero tratto alcun vantaggio da un’eventuale condanna: Jan Ciździel era già morto, le altre vittime vivevano in Polonia e non avrebbero avuto modo, secondo il tribunale, di venire a conoscenza della punizione di Wissemann.

L’onere di chiamare i responsabili a rispondere dei propri crimini nei confronti di lavoratori coatti fu dunque lasciato ai tribunali polacchi; ciò avvenne tuttavia soltanto in alcuni casi isolati. Nel novembre del 1947 il tribunale di Varsavia condannò il locatario demaniale Friedrich Rollwage per maltrattamenti ai danni di lavoratrici coatte polacche a dodici anni di carcere, ma decise il suo rilascio nel 1953. Nello stesso processo il “caporale” Karl Rümenap di Settmarshausen fu condannato a cinque anni di carcere per aver picchiato un lavoratore polacco. Nel 1948 fu la volta di Karl Piel e August Schwarz, rispettivamente dirigente e capooperaio della Sollinger Hütte di Uslar, contro i quali fu intentato un processo a Varsavia con l’accusa di aver torturato brutalmente prigionieri militari sovietici e lavoratori coatti polacchi e di essersi resi colpevoli in un caso della morte della vittima, in un altro della deportazione in un campo di concentramento. August Schwarz fu condannato ad otto anni di prigione, mentre Karl Piel ricevette la pena capitale e fu giustiziato il 19 dicembre 1948 a Varsavia.

Frontespizio della sentenza del tribunale di Colonia nel processo per il risarcimento »Viktoria Delimat, 34 Göttingen gegen die Bundesrepublik Deutschland« (Viktoria Delimat, 34 Göttingen contro lo stato federale tedesco):

Fonte: Wiktorja Delimat, Göttingen

 

Passi tratti dalla lettera di  risposta dell’Ufficio Amministrativo Federale di Colonia dell’ 11 maggio 1971 e dalla sentenza del Tribunale di Colonia del 15 marzo 1972, che mostrano l’atteggiamento difensivo delle istituzioni tedesche nei confronti delle richieste di risarcimento avanzate dagli ex lavoratori coatti:

Fonte: Wiktorja Delimat, Göttingen

 

Risarcimenti

Dopo la riunificazione delle due Germanie negli Stati Uniti furono intentate numerose azioni giudiziarie collettive per affrontare il problema, ancora irrisolto, dei risarcimenti agli ex lavoratori coatti. Alla fine degli anni ’90 ciò costituì una minaccia per alcune grandi aziende tedesche dipendenti dalle esportazioni, non solo per le pesanti richieste di denaro che furono loro presentate, ma anche per l’evidente danno d’immagine subito. Soltanto a seguito di tali pressioni nel 2000 fu istituita la fondazione EVZ (“Erinnerung, Verantwortung und Zukunft” =  “Memoria, responsabilità e futuro”). Il capitale iniziale di 10 miliardi di marchi fu messo a disposizione per metà dalla Repubblica Federale Tedesca, per metà raccolto da aziende tedesche, le quali tuttavia, nonostante le agevolazioni fiscali di cui godettero, non accettarono di buon grado questo coinvolgimento.  Più di 1,6 milioni di persone (dei ca. 8,4 milioni di civili vittime di lavoro forzato nel Reich tedesco) ricevettero complessivamente 4,37 miliardi di euro dalle casse della fondazione. In questo modo tanto lo stato tedesco quanto gli imprenditori, la gran parte dei quali aveva tratto grandi vantaggi economici dallo sfruttamento del lavoro forzato durante il nazionalsocialismo, riuscirono a difendersi da processi per risarcimento. Le somme versate come indennizzo non corrispondevano che ad una minima parte del salario di cui lavoratori coatti erano stati privati.

Facendo domanda di risarcimento alla fondazione gli ex lavoratori coatti dovevano, infatti, rinunciare ad ogni ulteriore indennizzo per le ingiustizie subite sotto il nazismo. Questo valeva anche per le pensioni, nonostante essi, durante il periodo di lavoro forzato, avessero involontariamente versato i propri contributi nelle casse della previdenza sociale. Si cercò quanto più possibile di negare il principio della responsabilità diretta. Le aziende tedesche che avevano sfruttato il lavoro forzato non erano obbligate a nessun pagamento a favore della fondazione. Tuttavia, le aziende che insieme avevano preso parte all’iniziativa della fondazione assunsero su di sé la responsabilità storica delle azioni di quelle aziende che si erano rese complici dei crimini nazisti.

Le procedure per ottenere il risarcimento dalla fondazione erano caratterizzate da numerosi difetti: i termini per presentare domanda erano troppo brevi e troppo rigidi, i procedimenti di verifica troppo burocratici. Ne rimasero esclusi intere categorie di vittime, come ad esempio coloro che erano stati costretti a lavorare presso famiglie di privati o nell’agricoltura, o i circa 130.000 Internati Militari Italiani ancora in vita. Rispetto al numero e al tipo di richieste il denaro a disposizione era insufficiente. Alcuni Stati-Partner decisero di risarcire anche chi era stato impiegato come lavoratore agricolo o domestico; in cambio dovettero però tagliare i risarcimenti ai lavoratori coatti dell’industria.

Epilogo

All’inizio dell‘ XXI sec., quando si cominciò a discutere apertamente del lavoro forzato, l’interesse dell’opinione pubblica per il destino degli ex lavoratori coatti crebbe rapidamente. In Germania ci furono due tipi di reazione. Da un lato fiorirono le iniziative per il risarcimento delle vittime del lavoro forzato durante il nazionalsocialismo e istituzioni come le cosiddette Geschichtswerkstätten (i “laboratori di storia”), con il loro impegno in questo campo, furono per la prima volta oggetto di attenzione pubblica. Una serie di studi condotti sui diversi luoghi che erano stati teatro del lavoro forzato fece luce sulla vera storia di questo fenomeno, troppo a lungo rimossa; allo stesso tempo a seguito di queste ricerche ci si rese conto di quanti atti fossero stati distrutti, spesso volontariamente, causando gravi lacune negli archivi. In molti luoghi il crimine del lavoro forzato sotto il Nazismo trovò ora per la prima volta spazio nell’ambito della commemorazione pubblica. Dall’altro lato una parte dell’opinione pubblica richiamava l’attenzione sul destino dei prigionieri di guerra tedeschi, ritenuto molto più duro di quello degli ex lavoratori coatti, temeva di essere chiamata personalmente a versare i risarcimenti e si calò a sua volta nel ruolo di vittima; toni razzisti tornarono a fare da sottofondo. Basta con „l’eterno processo“ alla Germania! - si invocò più di una volta.

Il lavoro forzato è ovunque un tema difficile, tanto in Germania quanto nei paesi d’origine dei deportati. Spesso tra tedeschi ed ex deportati esistevano, ed esistono tuttora, relazioni personali, contatti che attraversavano e attraversano l’Europa. È lecito strappare delle persone dalla propria patria, allontanarle dalle famiglie e dagli amici per costringerle a lavorare? Se lo Stato si rende colpevole in tal senso sorgono o meno dei doveri morali per i responsabili? Come possono guarire ferite di questo genere? Ci potrà mai essere una riparazione? Spesso nel dopoguerra si evitò di porre queste domande. Se le vittime riuscivano ad integrarsi nella società tedesca e decidevano di rimanere, dovevano dimenticare il proprio passato. A differenza dei tedeschi “cacciati” dall’Europa orientale, che ebbero pur sempre delle difficoltà ad inserirsi nella società tedesca, agli ex lavoratori coatti non fu concessa la possibilità di portare la propria sofferenza all’attenzione dell’opinione pubblica. Questa mostra cerca di dare una risposta a tali domande, lasciando molto spazio agli ex lavoratori coatti per raccontare le proprie esperienze.

L’interesse dell’opinione pubblica nei confronti del lavoro forzato ha reso più facile ad alcune vittime raccontare la propria storia. Molti lo hanno vissuto come una forma di riconoscimento; non ha potuto essere, tuttavia, una forma di riparazione.

 

Władyslaw Stankowski afferma riguardo al risarcimento:

»Risarcirci oggi per quello che ci hanno fatto - non può farlo nessuno. Questo è tutto –  è miserevole vedere oggi, come adesso che molte persone non sono più in vita e non possono trarne più alcun vantaggio... – un risarcimento per questo, impossibile!«

 

E Wiktorja Delimat:

»Se avessi ricevuto questo denaro nel 1945 nel 1950, quando ero povera e non avevo nulla! Ma adesso...Non può esserci  risarcimento per una cosa del genere. Praticamente tutta l’infanzia, e anche la giovinezza. Non può esserci risarcimento...Sì, è così.«


Fonte:
Archiv der KZ-Gedenkstätte Moringen; Foto privat


Fonte:
Günther Siedbürger, Göttingen


Fonte:
Günther Siedbürger, Göttingen


Fonte:
Günther Siedbürger, Göttingen


Fonte:
IPN Warszawa SOW 87 GK 269/87


Fonte:
IPN Warszawa SOW 87 GK 269/87


Fonte:
Stadtarchiv Uslar